Un amico mi scrive. Finalmente vado in Cambogia. Una terra che lascia una traccia pesante nella memoria. Prima che tu parta, Andrea, ho deciso di ripubblicare i miei racconti. Per darti qualche spunto. E per rivivere io stesso quanto di bello - e di difficile - ho visto in una nazione tormentata ma incantevole.
Killing fields
Bellezza e orrore. Convivono, fianco a fianco, in un paese dal passato recente calamitoso.
Non scrivo mai, la prima volta che visito una nazione. Mi ci vuole almeno una seconda visita di acclimatamento per studiare, cercare di capire, ascoltare quello che mi trasmette e provare a raccontarlo. Questa merita un’eccezione, perché è un luogo coinvolgente, straripante di messaggi e di sorprese, nel bene e nel male.
Capolavori dell’uomo, strabilianti ed emozionanti. E le atrocità più orripilanti che l’abiezione umana possa concepire. I due volti della terra di Cambogia. Architetture straordinarie e testimonianze viventi di una guerra mai completamente finita.
La bellezza mozzafiato di un tempio, tra tutti quelli parzialmente sopravvissuti all’ingiuria del tempo e dei predoni, spacciatori di cimeli architettonici troppo facili da razziare: Banteay Srei. Lontano dal cuore turistico pulsante di Angkor Wat, non compete né per dimensioni né per fama con il colossale monastero buddista, talmente simbolico da comparire perfino sulla bandiera cambogiana. Ma i suoi bassorilievi sono prodigi assoluti. Trine preziose, lavorate pazientemente nella pietra da mani infaticabili ed abilissime. Quelle di uomini in grado, svariati secoli fa, di concepire e realizzare tale delicatissimo miracolo, pietra su pietra, con artifici ingegneristici audaci, vestendolo di arabeschi bulinati con grazia, maestria e maniacale cura del dettaglio, e regalandoci così una perla che consola e confonde, generazione dopo generazione.
Il contrappasso di tale beatitudine estetica dista pochi chilometri da Banteay Srei. E mostra che l’uomo non è solo grande cesellatore di bellezze impagabili, ma anche essere abietto verso il suo prossimo e irriguardoso verso la natura che generosamente lo ospita. Il museo delle mine, voluto e creato da Aki Ra, cambogiano che può a buon titolo dire: ho visto cose che voi umani non potete immaginare.
Non sa quando è nato, ma crede verso il 1970. A cinque anni i suoi genitori sono stati ammazzati dai Khmer Rouge di Pol Pot. Normale per la Cambogia dell’epoca. E normale era, per un bambino non ancora decenne, vedere tanti suoi amici morire, arruolati come lui in un esercito di minorenni, comandato da diavoli. Cresciuto conoscendo solo la fame e la guerra, istruito da adolescente a piazzare mine, ne ha collocate a migliaia. Finchè nel 1987 ha cambiato sponda, combattendo con l’esercito Vietnamita contro i suoi addestratori ed oppressori insieme, i Khmer Rouge ormai in rotta.
Nel 1993, quando l’ONU arriva nella Cambogia liberata – o quasi – dalla piaga della rivoluzione comunista Khmer, la sua esperienza di posatore si rivela utilissima per cominciare a sminare quella terra piagata. Nel corso degli anni la sua abilità lo rende richiesto in aree sempre più distanti dal suo villaggio, finchè, nel 1997, con parte del materiale reso inerte in anni di rischioso lavoro, decide di aprire un suo personale museo.
Un giorno un gruppo di giornalisti giapponesi lo ha soprannominato Aki Ra. Quel nome gli è piaciuto e se lo è cucito addosso. A cinque anni, con i genitori uccisi, non sapeva più nemmeno quale fosse il suo. Negli anni, diversi nomi gli sono stati affibbiati da commilitoni e superiori: Yeak, Lo, Clay, Teov. Alla fine, quando ha potuto scegliere, ha cancellato, perfino anagraficamente, i ricordi di quei tempi orrendi.
Viene una gran rabbia, visitando quel piccolo ma essenziale museo della memoria. Da tre a sette milioni di mine antiuomo – nemmeno una stima precisa si riesce a fare – sono ancora in agguato in Cambogia. Ogni anno mutilano o uccidono tra quindici e ventimila persone. Come dice l’eccellente slogan della campagna contro la proliferazione di tali ordigni: e voi che vi preoccupate di non pestare una cacca di cane.
Ma questa collera, questa indignazione non nasce solo dal vedere immagini crude di gente sofferente o uccisa da mine, dal leggere le terribili statistiche passate e presenti, dall’incontrare per strada orchestrine composte da persone accecate o private delle gambe, gente che cerca supporto per la loro causa elemosinando pochi dollari dai turisti, che paiono gli unici a cui importi qualcosa, e nemmeno tutti.
Fa rabbia, e molta, che nazioni come la Cina, l’India, la Russia, gli Stati Uniti non abbiano aderito al trattato di Ottawa contro la produzione e l’uso di questi maledetti congegni. Disturba ancora di più l’ipocrisia di certe affermazioni, lette nel museo dell’orrore quotidiano: gli Stati Uniti non lo hanno firmato perché non è prevista “l’eccezione coreana”. Forse non lo sapevate, ma il milione di mine piazzate lungo la terra di nessuno (detta DMZ) tra il Nord e il Sud della Corea sono un simbolo e un messaggio di pace, prevenendo l’invasione di terra da parte dell’eremitico e belligerante Nord contro l’industrioso Sud. Peccato che Seoul, capitale e residenza di un terzo dei sudcoreani si trovi a meno di ottanta chilometri dal confine, e che probabilmente anche Andorra ed il Liechtenstein hanno missili di gittata superiore. Immaginiamoci l’armatissima Corea del Nord, in odore di potenza nucleare. L’India si giustifica dicendo che le mine servono a tenere lontani i terroristi islamici pakistani che potrebbero infiltrarsi dalla porosa linea di confine del Kashmir. Si è visto come sono servite. Gli stragisti di Mumbai sono arrivati via mare, secondo la vecchia tradizione moresca, ed hanno raggiunto indisturbati gli obiettivi stabiliti. Alla faccia delle mine seminate nel Kashmir.
Fa infine ribrezzo pensare, vedendo appese al muro le schede tecniche di ogni ordigno, con tanto di disegni e spaccati esplicativi, principi di funzionamento, applicazione, potenza e suggerimenti per un miglior risultato, manco fossero macchine fotografiche o telefonini, che ci siano stati, e magari ci siano tuttora, oggi, da qualche parte del mondo, dei progettisti che ne studiano di nuove e più deleteriamente efficaci, degli operai che le assemblano come se fossero motorini di frigorifero, degli imprenditori e dei rappresentanti della morte che fanno sporchi e lauti guadagni producendo e vendendo mine.
Fa vergognare, sapere di appartenere alla stessa razza di questi fautori, produttori, mercanti, seminatori di vile morte casuale. La mina è destinata al militare, ma non fa distinzioni. Animali. Civili. Bambini. Vecchi. Donne, magari incinte. Tutto viene equanimemente macinato, dilaniato, distrutto, mutilato. I campi che hanno ucciso milioni di cambogiani nella loro tremenda stagione di genocidio sistematico di una nazione, continuano a martoriare e uccidere. Chissà per quanto ancora. Vergogna, Mondo.
Prima pubblicazione : 3 gennaio 2009