Una settimana di Cina. Immagini, storie, curiosità. Impossibili da raccontare in diretta: ogni sito che evochi la pericolosa parola blog è bloccato. Senza speranza. Come del resto Facebook, Twitter, Youtube. Ma non Linkedin, che i giornali italiani on-line davano per inaccessibile. Per raccontare tutto questo potpourri di storie, l’unico omnicomprensivo titolo poteva essere questo: T.I.C.
La Cina e la Libia
Chi l’avrebbe detto che c’erano più di trentamila cinesi a lavorare nella terra di Gheddafi? Come topi sulla nave che affonda, stanno scappando con tutti i mezzi possibili dal manicomio libico. I più fortunati sono già arrivati a casa, con dei ponti aerei organizzati dall’Egitto o da Malta. Molti hanno barattato le attrezzature dei cantieri dove lavoravano con dei mezzi di fortuna, scassati bus o camion di quarta mano, per cercare di raggiungere il confine o un porto da cui salpare. C’è chi è stato derubato di tutto lungo la strada, da briganti pronti a cogliere l’occasione dell’anarchia. Ed è stato costretto a continuare l’odissea verso la salvezza a piedi. I cinesi sono abituati a faticare – e a non darsi per vinti. Settanta chilometri, a tappe, fino al confine. Senza tanto clamore, senza interviste aeroportuali, senza piagnistei. Cercavano un’occasione per mantenere la famiglia emigrando nella promettente Africa. Tornati a casa, forse ripartiranno per altri lidi. Chi non ha altra scelta si adatta e coglie quel poco che la vita gli offre. Nessuno, portata a termine l’operazione rimpatrio, parlerà più di loro. I senza voce, a casa e pure all’estero. T.I.C.
Turisti cafoni
Ai tanti cinesi che emigrano (nella stessa Cina o fuori dai confini) per raggranellare qualche soldo da mandare a casa per fare studiare la nuova generazione, si contrappongono i molti altri che invece hanno raggiunto un relativo benessere. E all’estero si possono permettere di andare non da malconci lavoratori di fatica, ma da turisti. Causando un interessante mix di sentimenti in chi li deve ospitare.
I cinesi sono i peggiori turisti del mondo. Non lo dico io, ma molti albergatori, organizzatori di viaggi, guide turistiche e ristoratori di mezza Asia. Quella stessa Asia che li riceve sperando nella loro sfacciata generosità di arricchiti, che spendono e spandono in preda ad una frenesia da soldo troppo facilmente ottenuto. I nuovi ricchi fanno la gioia dei registratori di cassa delle boutiques di Singapore, di Kuala Lumpur, di Bangkok.
Ma allo stesso tempo sono la disperazione di chi deve convivere con gruppi di beceri che urlano nel telefonino, sputacchiano per terra (e non importa se si trovano nella propria camera d’albergo, di solito moquettata), fumano ovunque, fregandosene di divieti e senso del decoro, non si peritano a gettare per terra qualsiasi rifiuto gli giri per le mani, nei musei si infischiano di cartelli e avvertimenti e toccano le opere d’arte, salendo perfino sulle statue per farsi fotografare, e giusto di recente hanno anche malmenato una guida turistica di Macao, colpevole solo di aver cercato di far da paciere in una discussione.
Esagerazioni? Ripeto, non lo dico – solo – io. Anche se concordo in pieno. Lo dice, e lo scrive, perfino un giornalista cinese, evidentemente più sensibile e civile dei suoi concittadini privi del minimo fondamento della buona educazione. Che fare? Il soldo, alla fine, tappa molte bocche e anche parecchi nasi. Quindi i ristoratori del Sud Est Asiatico hanno deciso di riservare certe aree dei propri locali ai soli turisti cinesi. Così questi potranno continuare indisturbati a far caciara, sgargarozzarsi bevande come oche all’ingrasso, sputacchiare pezzi di cibo, ruttare senza riguardo e portarsi via la frutta a fine pasto, senza dar sui nervi agli altri commensali. Almeno, con questa apartheid refettoria, pecunia non olet. Di rigurgiti alcolici. T.I.C.
L’onesto procione
Ci sono malfattori di grande taglia in Cina. Ladroni a sei zeri o più, burocrati corrotti che ogni tanto vengono pizzicati e pagano un conto salato alla giustizia, poco incline alla tolleranza nei confronti di chi capitalizza disonestamente in un anno quello che un operaio non ha speranza di vedere in una vita.
Poi, per contraltare, ci sono degli onesti la cui virtù diventa una fissazione, rasentando l’ossessione. Il signor Liu, proprietario di una tintoria di Shanghai, in vent’anni di lavoro ha sempre restituito ogni singolo oggetto trovato nelle tasche dei capi che la gente gli portava a lavare. Andando ben oltre la semplice correttezza professionale, che impone di avvertire i propri clienti di controllare prima della consegna. Lo scrupolo si è fatto mania: il nostro onesto procione registra su dei quaderni ogni articolo reso, il nome del cliente e il tempo trascorso tra smarrimento e restituzione. Dall’accendino di plastica di nessun valore al telefono cellulare, dall’anello d’oro agli spiccioletti fino alle carte di credito. Una volta ha riconsegnato una valigetta piena di contanti dimenticata lì da un cliente particolarmente frettoloso e distratto. Si è improvvisato detective per capire, tra una decina di clienti, chi aveva dimenticato dei soldi in tasca, da lui trovati solo al momento di aprire la lavatrice. Come abbia fatto ad esser certo che il supposto padrone della pecunia non gli stesse mentendo, è tuttora un mistero.
Il buon Liu si vanta di non aver mai accettato un soldo di ricompensa per tutto ciò che in tanti anni ha restituito ai legittimi proprietari. Nemmeno una mancia per quella valigetta con dentro diecimila euro. Erano gli stipendi degli operai di un’azienda. Non erano soldi miei, non avrei potuto accettarli.
La più bella ricompensa, caro Liu, l’hai scoperta da te: dormi bene ogni notte. E quello, davvero, non ci sono soldi che lo comprino. T.I.C.
Anche questo è un post a puntate. Continua qui.