Il mio meccanico è una di quelle botteghe – come il lattaio, la rammendatrice e il verduriere di quartiere – che c’erano tanti anni fa, prima dell’era dei supermarket, ma ora stanno scomparendo.
Il mio meccanico ha una grande porta di ferro a vetrate che si apre a mano senza sforzo e si piega come una fisarmonica plasmandosi sul muro.
Il mio meccanico è in pieno centro storico: a volte, se gli avanza una macchina, la lascia fuori col cofano che sbadiglia puntellato sull’asta, tanto nessuno ruba nulla ma le multe si evitano.
Il mio meccanico ti racconta sempre quello che c’è da fare, e perché, e cosa potrebbe succedere se non lo si fa, e sembra quasi uno zio affettuoso che si preoccupa per la salute di ogni macchina.
Il mio meccanico parla delle automobili con una passione che nemmeno il chirurgo del suo paziente trapiantato di cuore.
Il mio meccanico ha un sacco di ganci e catene e verricelli manuali che pendono da travi a soffitto, una vasta panoplia di chiavi inglesi manco dovesse riparare dagli orologi alle locomotive, e alle pareti i poster di latta con le réclames come i bar degli anni sessanta.
Il mio meccanico manovra, con la competenza e l’abitudine di anni, in spazi talmente stretti che uno non ci girerebbe nemmeno una bicicletta.
Il mio meccanico non è una rimessa, è una silenziosa cattedrale dove si officiano i riti della liturgia automobilistica.
Il mio meccanico si cala ancora nella fossa, guarda in alto, dentro al ventre inquieto della vettura, reggendo una torcia dal lungo cavo mezzo attorcigliato, e capisce tutto senza bisogno di test su strada, senza ipotizzare forse si tratta di questo oppure proviamo a fare quest’altro.
Il mio meccanico sono padre e figlio, al telefono li confondi ogni volta, ma quando rispondono sembrano sempre contenti di sentirti, come un amico che non si faceva vivo da tempo.
Il mio meccanico, il padre, dice in sessant’anni di carriera e non è un modo di dire.
Il mio meccanico, il figlio, non so se ha un figlio, ma mi piacerebbe che ce l’avesse e che un giorno entrasse anche lui nel mestiere con indosso una tuta con la pubblicità dell’olio e cominciasse a curare le macchine con la dedizione del padre e del nonno.
Perché il mio meccanico non è un negozio, è una dinastia. E qualcuno deve pur continuare questa impossibile tradizione di frugali, anacronistiche botteghe nel bel mezzo della città.
Prima pubblicazione : 18 novembre 2009
Mi piace sempre molto come scrivi ma per questo genere di post sai che ho un debole.
RispondiEliminaBellissimo.
Un saluto e speriamo di rivederci presto!
Andrea
Ciao Andrea,
RispondiEliminami fa sempre piacere trovare un tuo commento. So che mi leggi ogni tanto, quando scrivi vuol dire che ho stimolato la tua voglia di comunicare.
Grazie della tua presenza, a presto,
HP
E' un post molto bello, letterario, che stimola il rimpianto per quell'insieme di artigiani e vecchie botteghe che vanno scomparendo, trasformando e portofinizzando i centri storici.
RispondiEliminaSchiere di neo diplo-laureati, per lo più impreparati e disoccupati sostituiscono l'offerta di tradizionali falegnami, fabbri, calzolai etc. in via di estinzione.
Tesea
Ciao Tesea,
RispondiEliminapurtroppo i centri storici subiscono solo due sorti: o diventano totalmente inaccessibili, preda di studi, avvocatoni, notari pieni di scartoffie, architetti dal design innovativo che sventra muri e facciate come una ruspa futurista, e i sempre più rari abitanti si sentono una comunità dimenticata, oppure si trasformano in souk dove sentire parlare italiano è sempre più raro, dove le botteghe sono solo etniche e i call-centres con trasferimento di valuta all'estero sono la maggioranza delle vetrine.
Così si distrugge quel tessuto di commercio spicciolo che non ha più ragione di esistere, per mancanza di clienti.
Resistere resistere resistere. E restituire i centri storici alla gente. Anche se è scomodo non poter parcheggiare sotto casina bella, per portare un sacchetto da tre etti magari.
Grazie del commento cara Tesea, a presto,
HP