Lei è esile, sottile, dimostra a malapena vent’anni anche se ne ha quasi trenta. Ha una di quelle facce affaticate da un’esistenza precoce che sembra voler dimenticare. Vestita bene ma senza eleganza, sta dietro il bancone di un modesto negozio di orologi. Forse filippina, forse tailandese.
Entra un giovane, scuro di carnagione, una fresca e ribelle chioma di capelli nerissimi, e subito si illumina un sorriso candido e smagliante su quel viso acerbo e olivastro. Si capisce che non è la prima volta che si incontrano. Il saluto non è formale, lui si slancerebbe verso di lei per salutarla con confidenza, ma lei mostra imbarazzo, il volto si contrae in un risolino dalle venature tristi. Molto asiatico.
Ciao, fa lui, come stai. Quanto tempo. Dal retrobottega, attirato dalla cadenza informale della conversazione, compare l’altro. Minuto quanto lei, radi capelli bianchi e stremati, pettinati con cura maniacale a farne un piccolo riporto appiattito come una sogliola, un viso innaturalmente stirato, tratti caucasici, uno dei tanti europei che ad un certo punto della loro esistenza decidono per qualche recondita ragione di mollare tutto e di partire per un viaggio senza ritorno verso quei paradisi artificiali che si trovano qua e là in Asia. Pattaya. Phuket. Phnom Penh. E chissà quanti altri, con troppa carne fresca disponibile, e le autorità sempre pronte a chiudere un occhio, laide e sensibili al soldo frusciante. Ha sessant’anni, ne dimostra settanta e si illude di somigliare a un quarantenne.
L’improvvisa apparizione pare quasi rabbuiare lei. Questo è il mio ragazzo, dice al cliente, con tono manierato e introduttorio. Lui non riesce a trattenersi. Rimira quella figura così stonata rispetto alla locuzione che ha appena udito, e ribatte: il mio ragazzo? Non è un buon attore, e non sa mascherare un’espressione mista di incredulità e disgusto. Si leggono, stagliati sul suo viso bello e sfacciato di gioventù, i mille pensieri che stanno attraversando la sua mente. E nessuno di questi è lusinghiero.
Ci sono scelte – e compromessi – nella vita di ognuno che non andrebbero giudicati. Se non conoscendo la storia delle persone. Forse “il mio ragazzo” significa sicurezza, tranquillità, certezza di un pasto tutti i giorni, perfino un modesto benessere, per quella anonima vecchia signorina dalla gioventù bruciata.
Perché se da noi gli adolescenti si drogano di grandi fratelli e di amici di maria e di partite di calcio sette giorni su sette, laggiù c’è ancora chi viene venduta a quattordici anni da genitori ignavi o disperati di povertà alla tenutaria di un bordello. C’è chi lavora come un somaro in fabbriche malsane o nelle campagne paludose, invece di andare a scuola o giocare con una bambola.
“Il mio ragazzo” non è un compromesso. È una conquista. È una redenzione. È un’affermazione della propria capacità di sopravvivenza allo squallore. Anche se il tuo ragazzo sembra tuo padre, piccola, sconosciuta fanciulla. Solo chi ha vissuto abbastanza là può leggere dietro alla facciata di questi apparenti drammi. E non punta un dito moralista e inquisitorio, giudicando l’ingiudicabile.
Che tristezza!
RispondiEliminaPurtroppo anche in questi casi...più che il dolor 'può' il digiuno.
Tesea
ciao Tesea,
RispondiEliminabellissima questa chiosa dantesca al mio racconto. Uno dei canti più potenti e crudeli della Commedia. Certo il mio favorito. Anche questa piccola, comune storia, ha molto di triste e drammatico insieme.
E' la vita.
Grazie di visitare ancora questi vecchi racconti, a presto,
HP