Non quello che si trova in una buona parte degli alberghi di una certa fascia di stelle. Fuori da questo firmamento, al di sotto si compra la bottiglia d’acqua minerale dal supermercato di fronte oppure dal portiere che, nei casi più commoventi, ti dota addirittura di uno di quegli ormai rarissimi tappini di plastica con l’anello per avvolgerlo intorno al collo della bevanda, ve li ricordate? Mentre al di sopra il frigobar non c’è perché ogni ospite ha il personal butler, a cui telefonare per qualsiasi necessità ad ogni ora, e sarà lui così premuroso da portarvi in camera già stappata ed alla corretta temperatura la dissetante dose di bollicine, per dispensarvi anche della poco onerosa ma pur sempre perigliosa incombenza di far saltare il tappo a corona, mai vi si dovesse rompere un’unghia nell’operazione.
Dicevo: non mi riferisco a tale fastidioso elettrodomestico (a proposito, solo gli alberghi più intelligenti hanno un interruttore sulla parte frontale dello stesso, perché pare che i sadici costruttori di tali frigidaires mignon si divertano a nasconderci dentro un sensore orario, che più si va verso le ore piccole e più rende rumoroso e insopportabile il ronzio del marchingegno).
Minibar è l’apoteosi della capacità giapponese di sfruttare lo spazio, di cui sono in eterna carenza. Il bar più minuscolo – e semovente! – del mondo. Con tanto di ombrellone prospiciente il dehors, bancone ornato di allegre lucine decorative anche se è pieno giorno, insegna “aperto” (come se qualcuno, senza quel cartello, guardando la bottega avesse ancora dei dubbi, mah, chissà se sarà aperto o chiuso?) e addirittura ben due poltroncine d’alluminio, per i clienti più esigenti che l’espresso pretendono di sorbirlo comodamente seduti e non alla volè, in piedi.
Completa la pregevole organizzazione un sacrosanto cestino del pattume, mai qualche screanzato (certo uno straniero) trovasse la scusa che non sa dove buttare il tovagliolo di carta e sporcasse per terra.
La qualità, altro caposaldo della trinità virtuosa giapponese (puntualità, ordine e pulizia, qualità) è evidente nella scelta della marca di caffè da servire. Roba fine, importata dall’Italia, mica anonimi chicchi senza pedigree.
Il mezzo è certamente datato, ma non per questo mal mantenuto. Le cromature sono sempre splendenti, la tinta bicolore è piacevolmente adatta a quanto offerto dall’attività commerciale. Non l’ho fatto, ma c’è da scommettere che se avessi domandato alla gestrice ogni quanto lavava il veicolo, mi avrebbe risposto, con la stessa espressione sorpresa di un taxista a cui lo avevo invece chiesto, sottintendendo “ovviamente” ma facendolo ben sentire dall’intonazione della voce: ogni giorno, perché?
Devono essere stati fatti anche degli studi di ergonomia, che hanno portato alla seguente conclusione: la selezione per il ruolo di barista doveva tassativamente escludere le persone di altezza superiore ai 155 cm. Se no come ci stava, la tapina, nel posto di lavoro?