Finalmente sono riuscito a risentire le voci dei giapponesi che conosco. Alcuni di loro. E da loro ho saputo che altri amici e conoscenti stanno bene. Tramite posta elettronica mi avevano dato notizie di prima mano, quasi in diretta, venerdì stesso. Ma udire una voce è un’altra cosa. Da quella di solito capti emozioni, timori, paure, gioia. Non da quella dei giapponesi, tuttavia. Dopo i primi momenti di fervore, la maschera cala di nuovo sul volto, e molto più dentro.
Le tivu ci aggiornano, ora dopo ora, sullo stato di quei reattori capricciosi che non ne vogliono sapere di farci vivere tranquilli, e già il panico è diventato internazionale, con allarmi e spauracchi di contaminazione nucleare che assillano Corea e Cina. Continuano a ripassare sullo schermo le immagini di quell’orrenda e irrefrenabile ondata nera che tutto travolge e tutto invade. Oggi, come in ogni terremoto che si rispetti, si ritrovano dei superstiti, sopravvissuti chissà come in mezzo alle macerie. Ma non si vedono né applausi, né high-five, né urla di gioia. I soccorritori non hanno né tempo né forse voglia per esultare. Troppo immane il disastro.
Ascolto la voce, dall’altra parte del filo, e penso: è impossibile. È una cronaca razionale e ragionata, senza il minimo abbandono all’emozione. Mi parla di lavoro, come se nulla fosse stato. Solo quando lo interrompo – ho già saputo da altri quello che forse avrebbe tenuto per sé – ammette di non essere ancora riuscito a parlare con i genitori, che vivono proprio nella prefettura di Miyagi. L’unica cosa che sa – e dici poco! – è che sono vivi. Ma la sorte della loro casa è ignota. E teme il peggio, avendo appreso che sono ospitati in un centro di accoglienza. La prossima settimana cercherò di raggiungerli, mi dice. Fa una lucida analisi dei rischi. I treni sono ancora fermi, i pilastri di supporto della massicciata crepati dal sisma. Di aerei nemmeno a parlarne, l’aeroporto ancora inagibile. L’unica maniera è andare su in auto. Se non mi blocco per strada, aggiunge: la benzina è razionata, e già scarseggia. Anche a Tokyo la corrente elettrica va e viene, le centrali nucleari sono ferme, manca potenza per alimentare quella che fino a venerdì scorso alle 14 e 46 non era una nazione ma una macchina perfetta, che non perdeva un solo battito.
Gli dico solo questo: ti parla un fratello, non un collega. Devi andare. Sono i tuoi genitori, non importa dove siano adesso, hanno bisogno di rivedere il proprio figlio. Vai e trovali.
Sorride confuso, e solo un orecchio allenato è capace di riconoscere un sorriso in una comunicazione non visiva. Mi ringrazia con un inconsueto calore.
La paura non è finita. Lo sarà quando sapremo che la minaccia di inquinamento atomico sarà rientrata. Ma questo stillicidio di notizie, un saliscendi di speranza e panico, miglioramenti apparenti e rischi rivelati, perdite sì o no, contatori geiger e uomini in tuta integrale, inquieta anche da lontano, e fa affiorare dubbi e domande retoriche: se neppure nel tecnologicissimo e attentissimo Giappone sono in grado di prevedere e controllare le incognite ed i mostruosi pericoli di una centrale nucleare, che speranza abbiamo di esser capaci di farlo noi, faciloni e approssimativi italiani, mal addestrati e peggio educati al rigido rispetto delle regole, indispensabili quando si maneggiano panetti non di burro o formaggini, ma di cesio, uranio o stronzio? Davvero vogliamo lasciare in eredità alle prossime generazioni una simile spada di Damocle? A noi, e non ai posteri, l’ardua sentenza.
E per concludere. Non è dedicato all’amico nipponico con cui ho parlato finalmente oggi. Perché so che la sua non è indifferenza ma capacità di mascherare ogni dolore e le forti angosce dietro ad una facciata di ineffabile calma. Suprema arte giapponese, raffinata in una vita di costante e pedissequo esercizio. Ma il pensiero degli errori clamorosi che si fanno nello scegliere le priorità della propria esistenza mi ha attanagliato tutto il giorno. Così appropriati, mi sono tornati a mente gli iconografici versi del grande Michele Serra, tratti dalla poesia Febbraio, scritta nel 1981 “alla maniera” pascoliana. Trent’anni, e son sempre attuali. Li dedico ai tanti vanesi che, tutti presi dalle proprie vacue faccende, perdono di vista i veri valori, le cose davvero importanti nella vita.
Un sarto disegna gingilli
da vendere a cento milioni
ha il cancro ma pensa ai bottoni:
i sarti son tutti imbecilli.