È la serata di commiato, per il suo pensionamento, di una delle persone più amabili e squisite che abbia avuto modo di conoscere in Giappone.
Dopo avermi lasciato l’onore di decidere il ristorante – e naturalmente non ho potuto che rivisitare quel tempio di armonia di cui ho già tessuto le lodi in passato, gustando ancora una volta un supremo Tonkatsu – mi ha riservato un esclusivissimo, singolare, raro e prezioso regalo. Dopo cena prendiamo la metropolitana e andiamo a casa mia. E ti presento mia moglie. Ora, se una proposta del genere suona del tutto usuale in un consesso di colleghi d’ufficio italiani, giova menzionare che nel codice comportamentale giapponese la famiglia non è argomento di conversazione, che spesso sodali che condividono un ufficio per trent’anni non sanno nemmeno che aspetto abbiano né la moglie né la casa in cui abita il vicino di scrivania. E che, in dodici anni di visite in Giappone, mai nessuno si era mai sognato di invitarmi a casa sua.
Mentre camminiamo quelle poche centinaia di metri dalla stazione del metrò all’abitazione, percepisco nel mio anfitrione una velata titubanza. Sta cercando il coraggio – e la forma corretta – per rivelarmi un uso locale, gabellandolo quasi per una curiosità, una estrosaggine che uno straniero magari non comprende, ma, da buon ospite, è pregato di adeguarsi. Alla fine ce la fa e con voce serafica dice: nelle case giapponesi non si entra con le scarpe. Si tolgono all’ingresso, appoggiandole su una essenziale scansia, e si cammina, su quei caldi parquet che hanno preso il posto dei tradizionali tatami, scalzi o indossando delle vezzose ciabattine comunitarie, condivise negli anni dai rari visitatori.
Ecco fatto. Sospiro di sollievo, imbarazzi evitati. La serata è piovosa, che orrore il pensiero di un gaijin ignorante delle convenzioni che vìola quegli immacolati impiantiti con scarpe sporche e bagnate. Lo tranquillizzo subito, la fortuna vuole che il gaijin questa volta non sia proprio del tutto digiuno degli usi e costumi orientali. Così si agisce anche a Singapore, in Corea, in Tailandia. Ci scherzo su, ammettendo di prestare particolare attenzione alla virginale interezza dei miei calzini, onde evitare impreviste esibizioni di alluci che fanno cucù dalla trama rotta del pedalino, quando sono in quelle nazioni.
Il suo viso si illumina e, compiaciuto, riconferma mentalmente tra sé e sé che questo gaijin merita di essere messo a parte dei segreti di una casa giapponese. Dunque sa di creanza locale, non è un buzzurro che infangherà dappertutto. Ma va in visibilio quando gli confesso che io stesso, a casa mia, non entro mai con le scarpe, ed anzi provvedo di babbucce gli amici che mi vengono a far visita (pur non imponendo la cosa in forma assolutistica), essendomi gradita l’idea che sporcizia e sudiciume di strada si fermino sulla soglia di casa.
La casa è calda di legni chiari ed accogliente. Priva di orpelli, ninnoli e soprammobili che sono la tipica pecca e predilezione di tante nonne italiane. Minimalista, l’originale di quello che vedresti sfogliando una rivista di design con progetti di architetti giapponesi. Seppur moderna, ha le pareti scorrevoli di carta di riso, e si affaccia su un giardinetto minuscolo che è un capolavoro di ordine ed armonia. Ma il tratto distintivo è l’esasperante lindore, roba da chiedersi se passino l’intera esistenza alla ricerca del perfetto lustro, alla caccia dell’ultimo riottoso granello di polvere, alla messa in bolla di ogni quadro appeso, alla rigorosa selezione delle sequenze cromatiche nelle costole dei libri esposti. Anche nell’intimità del focolare domestico replicano le consuete ossessioni: pulizia, precisione assoluta, armonia e senso del bello.
Perfino il cane, grassoccia e simpatica presenza che tenta di approcciarmi un paio di volte, giusto per spiegarsi questa bizzarra, inusitata intrusione nel suo spazio, ha un aplomb ed una signorilità tutti giapponesi. Ed è logico, essendo un esemplare di pura razza Shiba, di cui ignoravo spensieratamente perfino l’esistenza fino a questa visita. Dopo una formale verifica olfattiva e l’accettazione del fatto che i suoi padroni parlano con questo alieno, e quindi tutto è in ordine, si accoccola pacificamente su una specie di strofinaccio, artisticamente disposto sul pavimento e, inutile precisarlo, privo del benchè minimo strappo o traccia di denti, e perfino immacolato di peli di cane. Robe da giapponesi.
Sono stati amabilissimi conversari, quelli che hanno riempito il tempo di questa privilegiata visita. Era evidente che la moglie intendeva l’inglese del nostro dialogo ma, essendo i giapponesi dei naturali perfezionisti, non parlandolo come una laureata di Oxford ha preferito che il marito traducesse nei due sensi la nostra chiacchierata. Hanno rievocato, deliziati, fra sorrisi trasognati e piccoli sporadici inchini, scampoli delle loro molteplici visite in Italia, con citazioni di luoghi che non è detto che la maggioranza degli italiani, tutti presi ad andare alle Maldive, alle Seychelles e a Bali, conoscano ed apprezzino come questa coppia di appassionati giapponesi. Il tutto accompagnato da un paio di bicchierini di Shojiu, un distillato di cereali di media forza e di gusto piacevole, che hanno contribuito a rendere la serata lieta e leggera. Mi hanno addirittura mostrato un tenerissimo album di fotografie, ormai nemmeno più sorprendente nella sua attenta scelta delle giuste didascalie per ogni città ed ogni monumento. Ma incantevole perché, come i liceali alla prima gita da innamorati, alternate alla foto, nelle taschine avevano riposto le carte d’imbarco del volo, la ricevuta di un tram, il biglietto del museo degli Uffizi, il conto di un ristorante memorabile. Dei coniugi alla soglia dei settanta con lo spirito romantico di due fidanzatini quindicenni. Che delizia.
Al commiato, l’ultima sorpresa. Nonostante le mie insistenze per tornare autonomamente in hotel (i giapponesi temono sempre che uno straniero venga misteriosamente fagocitato dalla metropoli e se ne perda la benchè minima traccia, oppure ritengono ogni gaijin totalmente incapace di destreggiarsi nella tela di ragno dei mezzi pubblici sotterranei che spostano quotidianamente milioni di pendolari), vengo riaccompagnato in macchina da entrambi, la moglie alla guida, il marito (che avendo bevuto un paio di bicchierini preferisce astenersi) premurosamente seduto accanto a lei.
Un inusitato onore (è ben raro vedere un abitante di Tokyo guidare la propria vettura, sia per la disumana efficienza del mezzo pubblico, sia per l’astronomico costo del parcheggio in centro), che suggella una serata i cui gesti parlano di una imperitura amicizia. Invitato a casa, presentato alla consorte, addirittura riaccompagnato in hotel destando l’auto privata dall’ozioso letargo in cui era assopita, forse da tempo. Non lavoriamo più insieme, ma so che ci rivedremo. Come amici. Sono soddisfazioni. Specialmente per un gaijin.
Prima pubblicazione : 9 luglio 2008